di Vito Meloni*
30 ottobre 2013
Il decreto con il quale la Ministra dell’Istruzione (un tempo pubblica) Maria Chiara Carrozza ha autorizzato la sperimentazione della riduzione a quattro anni del percorso scolastico in alcune scuole superiori solleva diversi pesanti interrogativi. Tutto nasce da una iniziativa del suo predecessore, Francesco Profumo, che, all’incirca un anno fa, dopo aver lanciato la proposta, di fronte alle numerose e vivaci reazioni negative, insediò una commissione di “esperti” con il compito di verificarne la fattibilità. L’obiettivo dichiarato, neanche a dirlo, era un ulteriore taglio, circa un miliardo e mezzo, a danno del bilancio della scuola pubblica, già dissanguato dalla cura da cavallo della coppia di illustri pedagogisti Gelmini e Tremonti.
Immagino che i nostri “esperti” non abbiano dovuto faticare più di tanto per consegnare al ministro un risultato già previsto dal loro stesso mandato. E infatti, di lì a poco, individuarono nel compattamento a sette anni del primo ciclo – scuola elementare e scuola media – o nella riduzione da cinque a quattro anni della durata del ciclo superiore le due vie posssibili. Con una netta propensione per la seconda soluzione, vista la scarsa fortuna che aveva avuto la prima ai tempi del ministro Luigi Berlinguer.
Finita, senza alcun rimpianto, l’era Profumo, si poteva pensare che non se ne sarebbe fatto nulla. Avevamo evidentemente sottovalutato lo zelo della nuova ministra delle larghe intese.
Non solo, infatti, ha prontamente predisposto e firmato il decreto autorizzativo della sperimentazione, ma, con entusiasmo degno di miglior causa, ha dichiarato che se ci fosse stata ai suoi tempi una scuola di tal genere, lei l’avrebbe scelta senza indugio.
E veniamo agli interrogativi o, per meglio dire, alle tante ragioni che rendono inaccettabile questo provvedimento.
Il manto ideologico dietro cui viene celata la vera natura di questa scelta, cioè quella economica, è che, in questo modo, i nostri studenti potranno concludere gli studi a 18 anni come nel resto d’Europa. Tralasciamo i tanti aspetti che ci vedono lontanissimi dalla mitica Europa, dalla misera spesa per l’istruzione, agli stipendi dei docenti, ai servizi agli studenti. Se si osserva il panorama dei sistemi scolastici dei paesi europei ci si accorge di come sia molto più variegato di quanto si voglia far credere, con la presenza di percorsi tanto fino ai 18 anni quanto fino ai 19, come in Italia, e, in talune situazioni, anche oltre. In ogni caso, si tratta di sistemi frutto di lunghe e consolidate tradizioni, di progressivi aggiustamenti, nei quali tutti i segmenti sono organizzati in modo coerente. Già è difficile, se non impossibile, trasferire altrove modelli maturati in contesti profondamente diversi per cultura e tradizione, pretendere di scimmiottarne qualche pezzetto è semplicemente folle. Senza contare che, quasi senza eccezioni, non c’è paese che non abbia rafforzato i suoi investimenti in istruzione (altro che porsi l’obiettivo di tagliare, tagliare e ancora tagliare!) e che non stia riflettendo criticamente sulla validità del proprio modello, proponendosi di cambiarlo in direzione opposta di quella scelta qui da noi, vedi Germania. Si conferma la tendenza, tutta italiana, di scopiazzare le ricette altrui proprio quando entrano in crisi là dove sono state prodotte!
Non è chiaro, inoltre, come si riorganizzano didattica e piani orari. Se, cioè, gli insegnamenti previsti dall’ordinamento saranno concentrati nei quattro anni senza subire decurtazioni o se invece verranno ridotti gli orari complessivi e, di conseguenza, abbassati i livelli di preparazione che saranno richiesti agli studenti. Capite bene che si tratta di questione rilevante, tanto più in una scuola che negli ultimi cinque anni, in nome della “semplificazione”, ha conosciuto pesanti ridimensionamenti degli orari di quasi tutte le discipline e, per qualcuna, la sparizione o quasi. Questione che avrebbe richiesto un ampio dibattito e non, come è avvenuto, la decisione solitaria del ministro su schemi elaborati nel chiuso di qualche stanza ministeriale. Manca perfino il parere obbligatorio del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, per il semplice fatto che il ministro Profumo ne ha decretato lo scioglimento senza neanche avviare le procedure per l’insediamento del nuovo organismo che avrebbe dovuto sostituirlo. Così, tanto per arrogarsi il diritto, per sè e per i suoi successori, di procedere come meglio credeva, senza alcun contraddittorio.
Per alcune generazioni di insegnanti la parola “sperimentazione” rimanda ad una lunga stagione di dibattiti, di ricerche e di pratiche per rinnovare la nostra scuola. Ricordo ancora perfettamente quante discussioni facemmo nel Collegio dei docenti della scuola nella quale insegnavo – e quanto furono appassionate – per decidere se aderire o meno ad alcune “sperimentazioni assistite” che avrebbero in seguito modificato gli ordinamenti. In quei processi erano coinvolte centinaia di scuole e decine di migliaia di docenti, erano il frutto di un dibattito trasparente, si puntava sui protagonisti, preoccupandosi del loro consenso e favorendo la condivisione. Non erano tutte rose e fiori, il confronto poteva anche essere aspro e non mancavano le resistenze. Ma tutto si svolgeva in modo da poter verificare con attendibilità se quei modelli erano validi oppure no.
Nulla di tutto questo è rintracciabile nella sperimentazione della Carrozza. Sono solo tre le scuole interessate, tutte e tre rigorosamente private. E non scuole qualunque. La più nota è il Liceo Guido Carli di Brescia, scuola di diretta emanazione di Confindustria – non a caso principale sponsor del progetto – attrezzature di prim’ordine e utenza accuratamente selezionata, non foss’altro che attraverso i 9.000 euro di retta.
C’è, nell’iniziativa della ministra Carrozza, un messaggio dal forte valore simbolico che io credo non vada sottovalutato. Tre scuole private sono state chiamate a guidare un processo di innovazione che, in prospettiva, potrebbe essere generalizzato a tutte le scuole statali. Più volte la ministra ha dichiarato di considerare sullo stesso piano le scuole pubbliche e quelle private, ora ci indica che sono queste ultime alla testa del sistema. Un’altra linea di confine è stata varcata, un’altra pietra del muro che doveva proteggere il mandato costituzionale della scuola pubblica è stata demolita.
Capisco che compiere atti come questo da parte di un’esponente di un partito e di un governo entrambi attivamente impegnati a stuprare la Costituzione, è come rubare una mela per un incallito rapinatore di banche; eppure, non scandalizzarsi sarebbe da sciocchi.
Le conseguenze non sono solo quelle pratiche, gravissime, da più parti denunciate, i miliardi tagliati o le 40.000 cattedre che si perderanno; iniziative di tal genere scardinano la cultura e il senso del “pubblico”, costruiscono senso comune, puntano a far percepire come “normale” ciò che normale non è e non potrà mai essere. Le insidie che portano in sé sono pericolose tanto quanto gli stravolgimenti formali della Costituzione, anzi, ne costituiscono la premessa e ne agevolano il percorso.
Dubito che la ministra recuperi il senso del pudore e si dimetta, come sarebbe doveroso per chi ha giurato fedeltà alla Costituzione. Non senza un forte movimento di massa che ponga all’ordine del giorno la fuoruscita da queste politiche retrive. È il tema che si stanno ponendo i tanti soggetti che un po’ dappertutto stanno dando vita ad iniziative di ripresa della mobilitazione nel mondo della scuola.
Superare il muro della rassegnazione, della frustrazione di fronte alla formidabile potenza dello schieramento avverso, è possibile; la posta in gioco, il futuro della scuola pubblica, è troppo alta perché qualcuno abbandoni il campo. Noi, come sempre, ci saremo.
Responsabile nazionale scuola PRC